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ITALIA, IL PAESE DELLE LIBERALIZZAZIONI MANCATE

Tutti le vogliono. Nessuno le fa. E non importa che per il Fmi un’accelerazione della concorrenza porterebbe ad una crescita per l’Italia del 3,5% in 5 anni e del 7,5% sul lungo termine. Non basta la previsione di Padoan secondo la quale potrebbero garantire “risparmi fino a un punto di Pil entro il 2020”. Come riporta il ministero dello Sviluppo Economico, al di là dei dati, l’apertura dei mercati darebbe una bella lucidata alla “credibilità del Paese, ma soprattutto al suo rating, grazie ad una maggiore sostenibilità del debito con un più elevato tasso di crescita potenziale dell’economia”.

Tutto questo non basta perché la politica ha ragioni che l’economia non conosce. Nonostante Renzi sia capace di grande determinazione (vedi riforma costituzionale e Jobs Act), sulla strada delle liberalizzazioni ha optato per grandi frenate e minimi dissensi. E non viceversa. L’attuale governo – è vero – è stato il primo a recepire le indicazioni dell’Antitrust con una legge ad hoc (il ddl concorrenza attualmente in Senato). Eppure sembra comunque prevalere lo status quo visto che la legge uscita da Palazzo Chigi nel febbraio 2015 giace da mesi in Parlamento tra audizioni, emendamenti, fughe in avanti e precipitose marce indietro. A scapito della libertà del mercato e dei consumatori.

Gallina dalle uova d’oro. Scorrendo il report sull’attività del ministero dello Sviluppo Economico 2015 alla voce concorrenza si scopre che dalla sola liberalizzazione del mercato dei servizi, la crescita del Pil sarebbe del 3,3% in 5 anni, porterebbe a +4,16% di consumi, +3,69% di investimenti, +1,66% salari reali, +4,94% di produttività del lavoro. Una gallina dalle uovo d’oro: calcolando che un punto di Pil equivale a 16-17 miliardi si tratta di oltre 50 miliardi. Ricordate i costi di ricarica delle sim liberalizzati nel 2006? Secondo l’indice dei prezzi dell’Istat, nel 2007 i costi per la telefonia mobile sono diminuiti del 14,6%, effetto dovuto all’abolizione dei costi di ricarica sulle schede telefoniche. Il risparmio totale è stato di circa 1,9 miliardi di euro all’anno. Mica male. Nello stesso anno sono stati liberalizzati i farmaci da banco senza obbligo di ricetta a carico del consumatore. La classica aspirina o l’enterogermina arrivano anche nei corner salute di ipermercati e parafarmacie: l’anno successivo i prezzi sono scesi del 20%. E ancora. L’abolizione della firma notarile per il passaggio di proprietà delle auto ha prodotto un risparmio di 40 euro per atto; l’eliminazione della penale per l’estinzione dei mutui anticipata, targata Bersani, ha portato ad un risparmio medio di circa 500 euro.1

La domanda di fondo è: quanto sono di ostacolo le normative alla libertà di scelta di operatori e consumatori? Da questo punto di vista l’Italia ha molta strada da fare. Nell’ultimo report IBL siamo a 67 punti su 100: la sufficienza. I bad performer sono soprattutto i servizi a rete e quelli più regolati. “Dove c’è ancora il monopolio legale, regolazioni asfittiche o barriere in ingresso molto forti. Dove esiste una rete fisica e unica, dai binari alla fibra ottica, lì c’è sempre difficoltà concorrenziale” spiega Serena Sileoni, vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni. No entry, insomma. E chiusi dietro la porta bussano i farmaci di fascia c con obbligo di ricetta e i trasporti: da un nuovo regime per taxi e NCC (è del 1992) fino al possibile ingresso di privati nei trasporti pubblici locali. Ma il tallone d’Achille è il settore carburanti, che sconta un’elevata fiscalità: il 69,7% del prezzo di vendita. Un carico che impedisce di percepire la differenza tra gli vari operatori. Non solo. A fronte di un numero molto alto di punti di vendita, pessima è la rete distributiva. E non aiuta l’obbligo del terzo carburante.

Maggior tutela. I settori che invece dovrebbero cambiare a breve sono energia elettrica e gas, oggi regolati dal servizio di “maggior tutela e c’è già chi dice no. “Il punto è che nessuno vorrebbe competitori – ammette Sileoni -. Ai tassisti piacerà la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi, ma non quella del loro settore. E viceversa. E queste sono tutte persone che votano, quindi…”. C’è un caso su tutti: taxi vs.Uber. Ci si scanna su un cavillo per cui il veicolo deve tornare alla nell’autorimessa e solo lì ricevere una prenotazione. Una norma obsoleta per il trasporto 2.0 o via app. Sembra un pretesto, ma dietro di esso si cela il nodo del problema. Lo iato tra il bene comune e gli interessi di settori economici piccoli e grandi. E le regole che possono ridurlo. Una partita complessa per il legislatore. Che Bersani riassume così: “C’è un meccanismo in cui prevale la forza di chi tiene chiusa la porta a scapito di chi sta bussando. Ma per liberalizzare ci vuole coraggio. Un elemento di rischio c’è. Devi investire il capitale di consenso di oggi in nome quello di domani”.

Fonte: La Repubblica

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