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Prezzi, con le riaperture arriva la batosta: «Tassa Covid sugli acquisti»

La soglia psicologica della «tazzulella ‘e caffè» oltre l’euro è stata varcata da tempo. Con il fiorire dei plateatici della «liberazione», seguiti a ruota dalla riconquista del bancone, però, qualche sopracciglio s’è inarcato. Non è più infrequente pagare un caffè un euro e venti, un euro e quaranta e persino un euro e cinquanta. Nel bar sotto casa, non al Florian di Piazza San Marco. Le segnalazioni alle associazioni di categoria si sono tramutate in un trillo ininterrotto. Ahinoi, non solo per il costo del caffè.

Il caro spuntatina

Se per le bollette innegabilmente più salate di luce e gas e per il pieno di carburante punitivo non si può che prendersela con la macro economia, il conto dal barbiere o in pizzeria, spiegano i consumatori, viene ormai percepito come una surrettizia «Tassa Covid». I lunghi mesi di chiusura si stanno traducendo in ritocchi all’insù di menùspuntatine, trattamenti dall’estetista. La conferma, prima ancora che dai numeri di Istat e Bankitalia, arriva dalle stesse associazioni di categoria che, per prime, non condividono la strategia del «recupero» di quanto perduto nel più breve tempo possibile. E sul litorale il brontolio si fa protesta perché, prendiamo Sottomarina, una giornata al mare ha visto due lettini e un ombrellone passare da 19 a 21 euro, il caffè a 1,20, la brioche a 1,40il toast da 5 a 6 euro. Un affronto, protestano i bagnanti. Poi c’è l’edilizia ebbra di Super e Sisma Bonus al 110% ma il tema lo trattiamo a parte.

L’inflazione

Volendo, nei meandri della certosina rilevazione prezzi dell’Istat ci si può perdere. Ma bastano pochi numeri a dare la misura. Centesimi, certo, che però raccontano un Veneto in cui l’aumento dei prezzi a maggio, mese di rinascita post Covid, non è solo un’impressione. Il dato tendenziale, vale a dire quello sui prezzi di maggio 2021 su maggio 2020, fissa l’«indice generale italiano» a 1,3. Quello veneto si ferma a 1,2. Eppure, se togliamo la voce tabacchi, segno che in Veneto si fuma un po’ meno della media nazionale, siamo allineati all’1,3. I numeri che fanno la differenza nelle spese quotidiane non sono certo gli alimentari (-0,7 in Veneto) bensì la voce «Ricettività e ristorazione»: l’Italia si ferma a 0,1, il Veneto schizza a +1,6: un abisso. Fra le voci più «care» rispetto al resto del Paese ci sono, infine, i trasporti: 4,8 media nazionale, 5,1 in Veneto. La rilevazione sui prezzi al consumo viene condotta sul famoso paniere, individuando qual è un certo numero di beni considerati significativi e che impattano sulla quotidianità dei cittadini. La rilevazione sul famoso paniere, spiega l’Istat che può contare anche su una rete di sedi regionali, viene tarata sul singolo territorio perché per i controlli sui beni di consumo ci si appoggia agli uffici dei Comuni capoluogo una, due o più volte al mese. A fine mese, poi, si dà conto del movimento dei prezzi, con un unico numero, il dato dell’inflazione. Ergo, in Veneto l’inflazione, per alcuni settori, in primis ricettività e ristorazione, è più alta rispetto al resto d’Italia. Dati che trovano conferma anche se prendiamo in esame uno degli indici più classici, il Foi (famiglie di operai e impiegati ndr.): lo scorso maggio in Italia era a 103,6 e in Veneto a 103,9.

Salassi su coperti e frutta

Nei parcheggi di piazzale Roma, dopo l’inedita stagione dei prezzi ribassati al minimo storico (da 30 euro anche per una sola delle 24 ore a fasce da due ore a base 7) i prezzi tornano a salire: 9 euro per le prime due ore e c’è chi aggiunge 10 euro per chi vuole la comodità di parcheggiare al pian terreno risparmiandosi la salita ai piani. Stupisce poco per chi bazzica Venezia, stupiva, semmai, la scontistica. Ciò che invece ha fatto imbufalire più di qualche avventore sono i piccoli rincari su beni percepiti come di prima necessità. Partiamo dalla pizza. Dopo mesi di asporto ci si siede volentieri in pizzeria. Ma si comincia a notare che i coperti da 0,50-1 euro sono lievitati a 2 e anche 3 euro. C’è di peggio, una innocente «aggiunta», diciamo acciughe o doppia mozzarella, passa da 0,50-1 euro anche a 2 euro. Che dire, poi, del «Ciliegie-gate»? Nelle scorse settimane quel chilogrammo di ciliegie a 8 euro ha scandalizzato anche la più esperta delle massaie. Coldiretti fa presente che, oltre al salasso per il consumatore finale, il rincaro pesa anche sui produttori. All’ingrosso una prima qualità di pesche, pesche-noci o albicocche costa 2-2,5 euro al kg, al dettaglio si viaggia sui 4-4,5. E veniamo alle famigerate ciliegie di stagione: una prima qualità prodotta in veneto costa 5 euro al kg (meno se prodotta in altre regioni al Sud) ma sui banchi dell’ortofrutta si vende a 8. Coldiretti spiega che i prezzi «alti» all’origine sono legati all’andamento stagionale. Poi c’è la verdura a terra: al produttore le zucchine vengono pagate 90 centesimi al kg, le insalate 80/90, i fagiolini 1,50. Ai consumatori il compito di valutare i rincari. La denuncia di Coldiretti è netta: il Covid spinge la speculazione sul cibo. I prezzi dei prodotti base dell’alimentazione hanno raggiunto, a livello mondiale, il massimo da quasi dieci anni trainati dalle quotazioni in forte aumento per oli vegetali, zucchero e cereali. Questo il dato di partenza dell’analisi di Coldiretti legata ai dati Istat di maggio sulla base dell’Indice Fao dei prezzi delle materie prime agricole che ha visto, come chiusa di un anno di aumenti consecutivi, un valore medio di 127,1 punti pari a un +39,7% rispetto a maggio 2020. Schizzano alle stelle i cereali ma anche la carne fa un balzo del 10%. Il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, invita a non trascurare nel Recovery plan le opportunità che vengono dalle campagne: «Bisogna ripartire dai nostri punti di forza e l’Italia è prima in Europa per qualità e sicurezza dell’alimentazione dove è possibile investire per dimezzare la dipendenza alimentare dall’estero». La pandemia ci spinge un po’, insomma, verso l’autarchia alimentare.

L’ira dei consumatori

Fra i più arrabbiati c’è Carlo Garofolini, di Adico: «Il caffè? Ormai lo chiamiamo “tassa Covid” ma fra chi ha applicato i rincari più consistenti ci sono i servizi alla persona e persino i dentisti. Fate caso alle fatture per una pulizia dentale: da 65 si è arrivati a 80-85 euro. Abbiamo avuto modo di vedere con i nostri occhi le comunicazioni ai pazienti in cui si spiegava l’aumento proprio “per Covid”. Dobbiamo fare un elenco? Sarebbe lungo… tramezzini da 1,60 a 2 euro ma anche tendaggi e tutte le materie prime per l’edilizia. Siamo indignati perché c’è una vera e propria speculazione in atto. Vorremmo istituire un osservatorio perché si farebbe prima a dire chi non ha aumentato. Mi viene in mente il solo comparto dell’elettronica. Stiamo rivivendo il 2002 con la conversione dell’euro… i controlli sono arrivati a buoi già scappati». Claudia De Marco, presidente trevigiana di Federconsumatori, conferma che «le segnalazioni fioccano soprattutto per parrucchieri e bar ma che l’unica strategia per il consumatore è selezionare i servizi. È comprensibile che in alcuni settori ci siano state delle difficoltà ma non è corretto che paghi sempre l’utente finale». Davide Cecchinato di Adiconsum Verona ribadisce la mancanza di controlli seri: «Registriamo un taglieggiamento anche di pochi centesimi solo in parte comprensibile. Gli organi di controllo facciano il monitoraggio necessario per evitare una lievitazione immotivata. Penso ai Comuni che hanno un ruolo nell’attività di rilevamento dei prezzi con le Commissioni prezzi e la polizia locale. Di prezzi la politica si deve assolutamente occupare, è in gioco la sostenibilità economica delle famiglie».

L’analisi delle categorie

Chi si aspettasse una difesa d’ufficio dalle associazioni di categoria resterebbe deluso. «I prezzi sono stati aumentati, è vero», Tiziana Chiorboli, presidente del settore Benessere di Confartigianato Veneto e vice presidente della Camera italiana dell’Acconciatura, è netta: «L’aumento di un taglio da 12 a 20 euro dal barbiere giustificato con l’utilizzo dei dispositivi anti Covid non regge. I teli monouso c’erano prima della pandemia e ci sono ora. A tutt’oggi si possono tranquillamente usare gli asciugamani a patto di cambiarli ad ogni cliente e sterilizzarli. Se poi un barbiere deve fare una barba sì, dovrà usare una Ffp3 ma gli Enti bilaterali hanno avuto i contributi per acquistare i materiali di sicurezzaHanno aumentato perché hanno voluto aumentare». C’è, invece, un altro aspetto da considerare: l’aumento a monte dei fornitori. «La filiera di prodotti che usiamo in salone – analizza Chiorboli – ha utilizzato e utilizza la cassa integrazione quindi le forniture arrivano a singhiozzo e spesso più care». Scuote il capo anche Patrizio Bertin, presidente di Confcommercio: «Gli incrementi ci sono anche se a macchia di leopardo. Molti hanno sofferto ma se aumentano i prezzi stanno attuando la strategia sbagliata. Per carità, sono aumentate le materie prime, gli ordini arrivano a fatica, il caffé, in effetti, è diventato più caro all’ingrosso e le spese sono tornate ad essere una voce importante. Siamo tornati a regime con gli affitti, si sono fatti investimenti sui plateatici e le tasse hanno ricominciato a correre, non così il fatturato. Eppure questo è il momento in cui bisogna stringere ancora i denti. Se aumentiamo ora ci facciamo una figura pessima».

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