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Gioielli del Made in Italy a rischio per la diossina e gli Ogm

Nessuno in Italia porterebbe in tavola cibo transgenico. Tanto che è impossibile rintracciare sugli scaffali nostrani anche un solo alimento con ingredienti Ogm in una concentrazione superiore allo 0,9%, cioè tale da dover essere dichiarata in etichetta. Eppure nel nostro paese ogni anno vengono importati milioni di tonnellate di soia e mais biotech. Che fine fanno? Purtroppo in un modo o nell’altro, come ha scoperto il Salvagente in un’inchiesta, riescono ad arrivare nei nostri piatti sotto forma di prosciutto, mozzarella, petto di pollo, bistecca, latte, yogurt, pesce e uova. All’insaputa della maggior parte dei consumatori, persino i gioielli del nostro made in Italy, quelli che si fregiano di certificazioni Dop o Igp come il Parmigiano reggiano, il prosciutto crudo di Parma o San Daniele, la mozzarella di bufala Campana, solo in rari casi possono definirsi davvero Ogm free. E non è l’unica ombra che pesa sui mangimi in circolazione in Italia.

Caccia alla diossina

In questi giorni, infatti, pesa anche un enorme allarme diossina, con centinaia di allevamenti passati al setaccio in tutta Italia e il blocco cautelativo deciso dal ministero della Salute degli alimenti – uova, latte, carne – derivanti da animali nutriti con mangimi che possono contenere mais contaminato. Un allerta scattato dopo che un mega carico da oltre 26mila tonnellate di granturco, proveniente dall’Ucraina è sbarcato al porto di Ravenna il 6 marzo scorso ed è stato venduto dal 7 aprile ai mangimifici italiani fino al 9 giugno scorso. L’allerta rapido, però, è scattato solo l’11 giugno, quando le autorità sanitarie della Regione Emilia-Romagna hanno i risultati delle analisi condotte su un campione di mais prelevato solo il 15 maggio (oltre due mesi dopo l’arrivo della motonave turca Tarik 3 dall’Ucraina): la concentrazione di diossina presente nel mais ucraino superava di quattro volte i limiti ammessi dalla normativa italiana ed europea. Peccato che gran parte del mais fosse stato già venduto agli allevamenti e presumibilmente già consumato dagli animali. Ragione che sta costringendo le autorità sanitarie ora a una corsa contro il tempo per rintracciare e bloccare gli alimenti contaminati dalla diossina.

Gli affari sono affari

Torniamo però all’altro inquinamento dei mangimi, quello meno emergenziale ma più frequente con cereali geneticamente modificati. Secondo il Salvagente si tratta di una pratica che interessa moltissimi allevamenti italiani, senza che questa informazione venga comunicata in alcun modo a chi acquista il prodotto alimentare derivato da quegli animali. Non solo. Le aziende che vogliono garantire ai propri clienti un alimento completamente “pulito” non hanno vita facile, perché devono assicurare il controllo sull’intera filiera per scongiurare contaminazioni anche di tipo accidentale. Devono certificare perciò l’origine, il trasporto e lo stoccaggio dei mangimi con cui sono stati alimentati gli animali dalla nascita al giorno della macellazione. Un giochetto che ha un costo e su cui attualmente in pochi sono disposti a investire. “Alla Borsa merci di Bologna o di Milano la soia Ogm costa tra i 10 e i 15 euro in meno a tonnellata rispetto a quella convenzionale”, spiega al Salvagente Guglielmo Donadello di Legambiente. Non moltissimo. Il problema è che per la produzione di mangimi, di soia ne importiamo circa il 70-80% dall’estero, non solo perché il nostro fabbisogno è maggiore rispetto alla capacità produttiva dei nostri agricoltori, ma anche perché il contenuto proteico della soia italiana è più basso di quella brasiliana o ucraina. Un vero salasso per la bilancia commerciale. Stesso discorso vale per il mais. “In questo caso produciamo circa l’80% di quello che utilizziamo”, continua Donadello, “ma ci sono annate terribili, come quella appena trascorsa, in cui la produzione nazionale è stata distrutta dalle aflatossine”. E spiega: “In passato esistevano circa 400 varietà di granturco che si adattavano perfettamente al microclima del luogo in cui venivano coltivate, oggi invece grazie a Pioneer e Monsanto ci sono rimaste solo 2 o 3 specie di mais che soffrono a seconda della stagione”.

La nuova resistenza

Nonostante la pressione dei colossi del biotech, non importiamo solo materia prima transgenica. “Già dal 2004, grazie anche alla campagna di Legambiente ‘Mangimi puliti’, è partita una serie di iniziative della grande distribuzione che hanno condizionato il mercato”, ricorda Donadello. Negli ultimi anni si sono sviluppati diversi mangimifici Ogm free. “Uno dei più importanti è quello della Veronesi Spa, leader italiana nella produzione di mangimi, proprietario anche del marchio Aia, che a Verona ha dedicato un intero stabilimento ai mangimi senza Ogm”. E oggi circa il 30% degli allevamenti italiani ha deciso di bandire gli organismi geneticamente modificati dalla dieta dei propri animali.

La Provincia autonoma di Trento legifera

La Provincia autonoma di Trento ha addirittura legiferato in materia, vietando agli allevatori locali di utilizzarli. Strategie così radicali sono state adottate anche da un colosso della distribuzione come Coop. “La scelta di offrire ai consumatori prodotti a marchio Ogm free è stata fatta da tempo: oggi riusciamo a certificare tutte le carni fresche, il 90% dei salumi, le uova, il latte microfiltrato e fresco e alcuni formaggi”. A parlare è Claudio Mazzini, responsabile Sostenibilità, innovazione e valori di Coop Italia. L’elenco delle referenze Coop libere dal biotech è lungo: si va dalla carne di pollo, compresa quella dei würstel, a tutte le carni rosse, dall’orata al rombo, dal salame Milano al San Daniele, passando per il Grana Padano stagionato 16 mesi fino alla bufala campana Dop. “È una scelta industriale che coinvolge circa 19 milioni di capi di bestiame e che ci costa 10 milioni all’anno, circa il 2-3% in più rispetto alla concorrenza”, precisa Mazzini, “ma è un investimento sul marchio e una scelta che asseconda la domanda dei consumatori”. E conclude: “Non si è capito che il marchio made in Italy ha un valore enorme. Il nostro paese non deve competere sui costi di produzione ma sulla qualità. Deve puntare sempre al meglio e non a prodotti omologati”.

 

di: Enrico Cinotti , Barbara Cataldi
fonte: ilsalvagente.it

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